Recensione di Fabrizio Fantoni
“Enzo, che artista sei?”
“Sicuramente il migliore”
“Che vuol dire il migliore?”
“Il più pericoloso, il più fortunato e talentuoso. Oggi gli artisti sono garantisti, consociati in qualcosa che rassicura. Sono vetrinisti e i musei sono pieni di casalinghe dell’arte”.
E’ questa una delle tante dichiarazioni spiazzanti ed irriverenti di Enzo Cucchi, presenti nell’intervista che costituisce il nucleo del libro – curato da Carlos D’Ercole – intitolato “Vita sconnessa di Enzo Cucchi” (Quodlibet). Un’opera, che non è una stucchevole celebrazione di un artista affermato ma un’originale e onesta ricostruzione di una corrente artistica controversa ma certamente importante – la Transavanguardia- fatta attarverso una serie di interviste realizzate dallo stesso D’Ercole a coloro – artisti, galleristi e amici – che hanno seguito Cucchi durante l’intera carriera: Emilio Mzzoli, Francesco Clemente, Brunella Antomarini, Luigi Ontani, Joseph Helman, Miltos Manetas, Salvatore Lacagnina, Paul Maenz, Bernd Kluser, Mimmo Paladino e Jacqueline Burckhardt.
Il risultato è il ritratto di un artista libero e istintuale, insofferente alle categorizzazioni della critica e alle imposizioni del mercato, che afferma le sue idee e le sue modalità espressive comunque e sempre, anche a costo di deludere le aspettative degli altri. Si pensi alla mostra svolta al Guggenheim di New York nel 1986, che Brunella Antomarini – moglie di Enzo Cucchi – ricorda nel libro con queste parole “E’ stato veramente uno spartiacque nell’itinerario di Enzo. Una mostra al Guggenheim poteva farne l’artista del momento. Ma Enzo non ama essere al centro dell’attenzione. Così al Guggenheim presenta due sculture a terra e un mucchio di piccoli disegni su una sola parete, lasciando lo spazio fondamentalmente vuoto. Ci furono recensioni molto controverse sulla mostra, tanto che il direttore del Guggenheim Tom Messer ci chiese se ci fossimo dispiaciuti. In realtà moltissimi giovani artisti all’inaugurazione si complimentarono con Enzo perchè la sua scelta apriva loro nuovi spazi, dava loro l’opportunità di poter usare un museo in modo diverso. Il gesto di Enzo era nel senso della libertà, della sperimentazione, contro la storicizzazione della sua figura di artista, per di più giovane. Fu un modo di tradire le aspettative. Non ne fece dichiarazioni programmatiche. Seguì solo il suo istinto. Enzo si tenne la libertà, rinunciando a un ruolo di protagonista per non allineare la sua immagine alla percezione degli altri. Enzo è un solitario, che rifugge da situazioni teatrali o da appartenenza”.
Quanto descritto da Brunella Antomarini non è l’atteggiamento snobistico ed autoreferenziale di un artista di successo. Al contrario, è una necessità autentica e profondamente sentita che troviamo espressa nel libro pubblicato da Enzo Cucchi nel lontano 1977 – molto tempo prima della nascita della Transavanguardia e del successo internazionale – con il titolo “Il veleno è stato sollevato e trasportato”. In esso si legge :
“Riley ancora seduto nella posizione yoga esegue un solo tono continuo e ripetuto fino alla noia.
la ripetizione riprodurrà continuamente la stessa operazione di trasmissione
lo stesso tono viene ripetuto in diverse variazioni melodiche attraverso la particolare esecuzione di scivolamento da una frequenza ad un’altra
Riley è in una stanza con lampade e tende
Perché Riley, non lasci che il suono si liberi ed esca sulle strade – perché il suono si riproduca continuamente è necessario avvicinare un organo all’altro lungo la strada in modo che il suono sia recepito in tutta la sua lunghezza e intensità da un’intera comunità. E’ necessario ripetere ciascun tono su ogni strumento
man mano il suono slitta ondeggiando
Ma, Riley, perché questo avvenimento virtualmente si svolga è necessario che tu copra tutto il percorso delineato dagli strumenti solo nel percorso puoi rintracciare la struttura fondamentale del suono
poiché in questo modo la struttura musicale e il suo concepimento inducono ad una esecuzione lungo il percorso delineato dal mezzo di riproduzione del suono, allora questa particolare esecuzione è l’unica condizione perché tu possa autenticamente preservare la struttura fondamentale del suono
il suono è sulla strada il contenuto è il percorso”
Le parole sopra riportate sono la chiave di lettura per comprendere l’opera di Cucchi. Qui per la prima volta l’autore delinea – quasi in modo programmatico – la piena coincidenza tra vita ed arte, due elementi che si compenetrano a vicenda nella consapevolezza che la creazione artistica è l’unico strumento che l’essere umano ha a disposizione per dar forma e sostanza alla propria esistenza ed entrare in armonia con il mondo.
In effetti osservando i dipinti di Cucchi si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un diario intimo e sensoriale in cui i dati dell’esperienza vengono sottoposti ad una trasfigurazione personale e potentissima capace di far emergere la parte più crepuscolare dell’inconscio, di dar voce all’ombra.
Le immagini che popolano il mondo di Cucchi provengono dall’ombra e nell’ombra vogliono tornare. Paesaggi dominati da alte montagne, uomini dalle fisionomie distorte, imprevedibili accostamenti di immagini, “segni” che hanno la fragile consistenza dei sogni e paiono materializzarsi solo per pochi istanti per poi dissolversi nell’oblio: “siamo tornati per scomparire/intorbidare il fondo” per usare i versi di Luigia Sorrentino.
Componente ricorrente delle opere di Cucchi è, del resto, la morte vista non come macabro accadimento ma come elemento naturale che permea il paesaggio divenendo paradossalmente il fulcro da cui promana la forza vitale che tiene unita l’intera composizione.
Queste poche considerazioni valgono da sole a dimostrare come la vita sconnessa di Enzo Cucchi – così ben descritta nel libro di Carlos D’Ercole – sia il risultato di un’esistenza piegata alle ragioni dell’arte e della creazione artistica. Le opere di Cucchi non sono fatte per gli sguardi assuefatti della bella società che scambia mostre e musei per luoghi di incontri mondani. Al contrario sono opere che ingaggiano un dialogo serrato con lo spettatore, lo interrogano e lo inducono a cercare un ingresso al mondo dell’autore anche mediante i titoli che l’artista offre come un ulteriore chiave di lettura.
Voglio congedarmi dal lettore con una poesia di Emilio Villa che mi ha inviato – come dono benaugurale – Alessandro Cucchi la notte del 31 dicembre. In essa si scorgono molti degli elementi – l’ombra, la sacralità della terra – rintracciabili nell’opera di Enzo Cucchi al punto che se dovessi accostare un testo ad un’opera come “quadro minore marchigiano” del 1980 non potrei che scegliere questo.
“Gli alberi si sposavano
le pietre erano gli dei
il mare possedeva corpo e capo
le immagini erano il silenzio
inquinato. Le figure erano la polpa
dell’invisibile e le labbra
forti come le scapole e le mascelle
seme era il vento
la voce un processo di idrogenazioni.
Il linguaggio erano le stagioni
estreme, non eliminate.
gli odori erano gelo e notte,
e il tempo che, tale che.
L’anima era lontananza X uguaglianza
e il numero follia, purissima follia.
la musica era il nodo era
la stuoia. E lo sforzo
era l’ombra fissamente considerata
in inconcepibili moltipliche
incroci attriti giustapposizioni
forza X forma era il cuneo
e l’anima futura era l’anima
dell’anima senza divisione
e così leggemmo insieme
l’enuma elis i rancori
teogonistici e le sciocchezze
senza scampo di Kierkegaard
e le maledizioni dell’antico
testamento”.